Preparandomi a scendere in campo sabato pomeriggio per la mia 900a partita di club, non ho potuto fare a meno di pensare che nel calcio giocato ho i giorni contati. A 41 anni inizi a mettere a fuoco il pensiero: non potrò giocare a calcio per sempre. A un certo punto, in un futuro non troppo lontano, dovrò appendere le scarpette al chiodo. Il cambiamento è inimmaginabile.
Dopo 26 anni di attività sono istituzionalizzato quanto il campionato. Come reagirò? La morte senza spiegazioni di Gary Speed ha spinto molti giocatori a parlare candidamente della depressione che ha seguìto il ritiro, mettendo questo argomento al centro dell’attenzione. Da Dean Windass a Stan Collymore, giocatori che un tempo erano considerati stelle all’improvviso si ritrovano perduti. I calciatori della mia generazione non diventeranno proprietari di pub come i nostri predecessori, cosa faremo allora? Un sacco di introspezione, immagino.
Il calcio ha rappresentato la nostra dipendenza. Abbiamo vissuto il sogno ma per molti il risveglio è brusco. Lo scorso fine settimana, mentre commentavamo assieme per la Bbc, Robbie Savage mi ha detto che da quando si è ritirato ci sono giorni nei quali non ha idea di cosa fare. Dopo aver passato tutta la nostra vita adulta ad obbedire – infantilizzati dal sistema – all’improvviso dobbiamo prendere noi le decisioni, crescere, reintegrarci nella maggioranza della società.
Nel ritirarsi molti giocatori semplicemente spariscono dalla vita pubblica. Nella tv dove un tempo erano lodati ogni settimana, all’improvviso diventano dei nessuno. E’ molto dura accettarlo. Io ne ho già avuto un assaggio, passando dal giocare per la nazionale inglese ai Mondiali, quando tutta la nazione parlava di noi, a giocare nella Championship (la serie B inglese, ndt), un campionato che dai media riceve solo una piccola parte della copertura riservata alla Premier League. Non mi meraviglia che ci siano ex sportivi che finiscono a Ballando sotto le stelle: gli manca essere al centro dell’attenzione. Non riesco a vedermi in uno di quegli spettacoli, solo qualche anno fa in questa rubrica scrivevo della mia avversione per i commentatori. Ma lo scorso fine settimana l’ho fatto pure io per la Bbc. Mi sono divertito, anche se i miei colleghi mi hanno massacrato per il gilet che indossavo.
Alcuni si chiederanno cosa hanno i calciatori da essere depressi: giocano a calcio, guadagnano milioni di sterline (anche se non è così per tutti noi); ma se è vero che questo è un bellissimo modo di guadagnarsi da vivere, il calcio non è la vita reale e anche se cerchiamo di restare in questo ambito – diventando allenatori o commentatori – non possiamo sfuggire in eterno al mondo reale.
Perciò cosa intendo per istituzionalizzato? Beh, a 41 anni sono ancora parecchio immaturo. Ricordo di aver sentito una volta il produttore discografico Pete Waterman dire che nel momento in cui una band di ragazzi dice di voler scrivere le canzoni da sé sai che per loro è la fine. Il calcio è uguale. I giocatori restano immaturi ben oltre i venti e i trent’anni. All’industria calcistica fa comodo che restino così. E più a lungo ci resti, più profonde sono le conseguenze.
Il calcio è stato tutto per noi. Condiziona la nostra vita privata. Viviamo per i picchi – una prestazione da uomo-partita ammirata in tv da milioni di spettatori – e crolliamo con i bassi, una continua oscillazione tra stati emotivi estremi. Che influenza le nostre relazioni con compagne, figli, amici e colleghi. Nei miei 26 anni da professionista sono stato un incubo per chi era al mio fianco. Al Liverpool, dopo una partita vinta 3-1, ero uscito dal campo di umore nerissimo perché avevo subìto un gol. Chiunque si avvicinasse a me dopo una sconfitta restava allibito. Mi disturba ancora pensare a che razza di comportamenti avessi allora.
Il gioco mette molta pressione anche sulle persone a te vicine. Soffrono in particolare i figli. Nella mia vita ho dato molto di più al calcio di quanto abbia dato come padre. Che si trattasse di sbalzi di umore che influenzavano l’atmosfera a casa, o semplicemente il non essere presente fisicamente perché impegnato in trasferte, preparazione e tournée estive oppure allenamenti il giorno di Natale. Quando ti ritiri sei costretto a rimettere insieme i cocci. Devi diventare un vero padre, un vero marito, un vero figlio. Nessuno ti avvisa che questo accadrà e in quel momento a chi chiedi aiuto? Potrai pure essere l’ex calciatore più ricco al mondo ma non potrai mai pagare qualcuno che sistemi la tua famiglia per te.
C’è la convizione sbagliata che tutti i calciatori abbiano molta fiducia in se stessi, ma per la maggior parte è vero il contrario. Se come individui siamo spesso messi in una posizione di prestigio, il nostro potere in termini reali è abbastanza limitato. Non sorprende che così tanti giovani giocatori si perdano per strada. Idolatrati come divinità da un lato, in ambito lavorativo ci si aspetta che si pieghino all’autorità del club. E’ una dinamica strana e che crea confusione, in perenne conflitto. Non è una coincidenza che molti giocatori tendando a essere molto insicuri. Ci cibiamo di complimenti, ed è un duro brusco risveglio rendersi conto che la maggior parte della gente attorno a te ti rifili una marea di sciocchezze.
E’ paradossale che in un gioco nel quale abitualmente si parla di fiducia in campo, al di fuori del rettangolo di gioco il supporto psicologico sia negato in modo tremendo. Parecchi anni fa, durante un periodo no al Liverpool, mi ero rivolto alla società per un aiuto. La risposta fu “non parlarne e fattene una ragione”. E’ triste ma non credo che il mondo del calcio si sia discostato da quella posizione. Anche quando i club sono abbastanza lungimiranti da invitare e coinvolgere psicologici sportivi, i giocatori hanno paura di rivolgersi a loro. Troppo preoccupati di cosa possano pensare i compagni o l’allenatore: “Penseranno che sono matto?”, “E se quello dice al tecnico quel che dico a lui?”, “E se compromette la mia posizione all’interno della squadra?”.
Dico sempre: abbiamo nutrizionisti che ci aiutano con le nostre diete, scienziati sportivi che ci aiutano a migliorare la nostra forza, preparatori che aiutano a perfezionare il nostro rendimento ma l’area che essenzialmente determina tutto il resto – la psicologia – non c’è mai. Fai richiesta di uno psicologo e sei sicuro di ricevere un cenno di disapprovazione.
Il nostro mondo ha necessità di una rete di supporto indipendente che aiuti sia i calciatori in attività che quelli ritirati a gestire le pressioni legate al calcio. In attesa di quel giorno credo che continuerò a rinviare il momento del ritiro ancora per un po’. Almeno sino a quando arriverò a 1000 partite.
David James
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