Delusione rossonera: Robinho e Ibrahimovic

Le coppe europee hanno evidenziato in modo impietoso il declino della serie A. Un calo oggettivo, prolungato, certificato dal ranking Uefa. La classifica che attribuisce il numero di squadre che ciascun campionato può mandare nelle competizioni europee vede la serie A ormai superata da Inghilterra, Spagna e Germania: una classifica che fotografa un peggioramento evidente da tempo. Un decadimento complessivo, strutturale, riassumibile in cinque punti.

PRESIDENTI. Se il campionato inglese è diventato una sorta di filiale calcistica dello Stock Exchange londinese, capace di attrarre da tutto il mondo  capitali e miliardari (russi, arabi, thailandesi, americani), favorendo scalate e cambi ai vertici delle società, la serie A è sempre più simile a un bazar dove girano pochi soldi e molti furbi. Sempre gli stessi. Una mancanza di ricambio comune ad settori della vita italiana. La fluidità e la dinamicità della Lega inglese non è però sempre positiva, perché ha aperto le porte anche ad autentici avventurieri che hanno ridotto in bancarotta squadre come Portsmouth e Notts County o indebitato sino al limite del tracollo Liverpool e Manchester United; speculazioni difficili da prevenire anche nello stagnante panorama italiano, come dimostrato dai recenti travagli del Bologna. Ma l’emblema della differenza tra i mecenati che muovono gli affari della Premier League e quelli (presunti tali) che operano in serie A è rappresentato dal trattamento riservato a Massimo Cellino. Lo scorso anno il presidente del Cagliari pretendeva di comprare il West Ham, portando in dote la grande esperienza maturata nel campionato italiano alla guida del Cagliari: pochi soldi, molto know-how. Versione calcistica del Marchionne che pretende di comprare l’Opel e riesce poi a prendersi la Chrysler. Al presidente del Cagliari da Londra non hanno risposto come gli americani alla Fiat ma come i tedeschi: ancora ridono. Invece in Italia Cellino, con qualche ragione, può permettersi il lusso di considerarsi uno dei migliori presidenti della massima serie: in sella da 19 anni, ha saputo tenere la società rossoblu sempre in linea di galleggiamento, senza esporre i bilanci a pericolosi alti e bassi. Una gestione tipica di quella schiera di squadre di seconda fascia, incapaci di crescere e competere per i trofei, utili però a tenere in piedi il gioco che alimenta gli affari delle “grandi” e non prevede rivali minacciose. Chi ha tentato di insidiare l’oligopolio, provando a competere sul mercato – come Fiorentina, Parma, Lazio e Roma – ne è uscito con le ossa rotta e bilanci da curatore fallimentare. Ridotte al rango di fuguranti in patria, non possono certo coltivare ambizioni continentali. 

STADI. I presidenti presentano il problema-stadio come il crocevia di tutti i problemi: lo vogliono di proprietà. È il nuovo bingo. Finora hanno dovuto accontentarsi di utilizzare quelli comunali, come fossero propri, a costi ridicoli e facendone quel che volevano. Spesso lasciandoli cadere a pezzi, proprio per spingere il comune alla cessione o alla demolizione. La vetustà di impianti rinnovati appena 21 anni fa in occasione dei Mondiali di Italia 90 è un argomento così ozioso che solo qui si è potuto prendere sul serio. Così come la necessità di demolire il Delle Alpi per permettere alla Juventus la costruzione di un nuovo stadio. Parliamo di una città, Torino, che si è dimostrata incapace di tutelare il vecchio Filadelfia, ha trasformato il Comunale in Olimpico e fa radere al suolo uno stadio inaugurato nel 1990 e chiuso nel 2006: era davvero sbagliato? Mal progettato? Se sì, chi paga? Ma, soprattutto, dov’è la coerenza nella gestione di queste situazioni? Proprietà o concessione: è davvero così determinante? Lo spettacolo deprimente di stadi spesso semideserti è legato al caro biglietti e al subappalto di larghi settori dello stadio alla tifoseria organizzata. Il tutto esaurito è veramente un ricordo d’altri tempi. L’esempio da seguire in questo caso arriva dalla Bundesliga, capace di ammodernare i propri stadi in occasione del Mondiale 2006 e intraprendere una politica di riduzione dei costi dei biglietti, mirata a favorire un più massiccio afflusso dei tifosi e in particolare delle famiglie. Scelta che consente alle società di poter modellare un marketing differenziato e più ampio che punta proprio sui bambini, che da piccoli vengono abituati alla frequentazione dello stadio, fatto che inevitabilmente lega e fidelizza alla squadra e che di conseguenza attrae il resto della famiglia. L’esatto contrario di quel che avviene in Italia dove la presenza di bambini è ridottissima: una generazione che avrà visto tanto calcio ma solo sul piccolo schermo. Ed è normale che un bambino di Genova, mai stato a Marassi, possa essere legato più all’Inter o al Barcellona che alla Samp o al Genoa: ridotto il calcio giocato al rango di programma tv, scelgo il migliore.

Delusione rossonera: Robinho e Ibrahimovic
Robinho e Ibrahimovic: super in Italia meno in Europa

VELOCITA’. I confronti nelle coppe europee mettono sempre più in evidenza l’incapacità delle squadre italiane di reggere il ritmo delle avversarie. Non è più solo una questione di atteggiamento mentale (casa o trasferta). La differenza è l’intensità. Le squadre italiane a certi ritmi scoppiano. A far rumore recentemente sono state le tre sconfitte casalinghe di Roma, Milan e Inter contro Shakhtar, Tottenham e Bayern in Champions League. Ma la massima manifestazione continentale è anche quella dove l’Italia ha colto i risultati migliori negli ultimi anni, grazie ai successi di Milan (2007) e Inter (2010). Successi estemporanei che hanno nascosto il crollo del livello medio del campionato. Per scoprire il bluff sarebbe bastato guardare al rendimento offerto in Europa League nell’ultimo biennio da Genoa, Lazio, Palermo, Juventus, Napoli: quelle che che vengono considerate le realtà più brillanti alle spalle del duopolio milanese sono andate costantemente in difficoltà contro qualunque avversario. Non solo. Un’altra riprova del gap arriva dal doppio rendimento di Zlatan Ibrahimovic. Sia all’Inter che al Milan, il giocatore svedese ha sempre fatto la differenza in campionato risultando quasi impalpabile nelle coppe, di fronte ad avversari più fisici e in grado di imporre ritmi più elavati rispetto a quelli della serie A, dove un gioco continuamente interrotto dagli interventi arbitrali, consente di rifiatare e riposizionarsi, spingendo le squadre a giocare con e contro difese schierate. Situazione tattica ben diversa da quella proposta nelle coppe dove i ritmi più elevati e il minor numeri di fischi arbitrali, finisce col premiare le squadre più abituate a giocare in velocità.

ALLENATORI. Vedi sopra. Come per i presidenti anche qui i nomi sono sempre gli stessi. Prima o poi c’è sempre una panchina di serie A per Beretta, Giampaolo, Colomba, De Canio, Delneri, Reja, Rossi, mai per tecnici esperti come Claudio Gentile o Dino Zoff o tutti da provare come Filippo Galli o Roberto Rambaudi. Il criterio che guida queste scelte non è l’anagrafe né l’innovatività. Sacchi, Scala, Zeman e Zaccheroni sono gli ultimi tecnici ad aver proposto schemi e disposizioni originali: da più di dieci anni non si vede nulla di nuovo. Eppure circolano sempre gli stessi nomi. Insostituibili, imprescindbili. Arredo permanente del campionato. Fin troppo evidente che nel turnover dei tecnici la figura del procuratore incida più di preparazione e risultati.

MODELLI. La qualità dei campionati non può misurarsi dai vertici, altrimenti la Liga spagnola sarebbe il torneo migliore del mondo dai tempi in cui Real e Barcellona schieravano Alfredo Di Stefano e Ladislao Kubala. E anche quelli di Scozia, Olanda, Portogallo potrebbero sembrare più competitivi di quel che sono. La qualità delle squadre di metà classifica e la varietà dei vincitori sono i veri indicatori del grado di competitività di un torneo. In questo senso il campionato inglese, eletto a modello dalla Lega di serie A, non è certo il punto di riferimento più azzeccato. La vecchia First division inglese, sorta nel 1888, poteva essere ritenuta il campionato migliore o comunque più equilibrato al mondo: 23 squadre capaci di vincere il campionato; la più titolata era il Liverpool con 18 campionati vinti davanti ai dieci dell’Arsenal, ai nove dell’Everton e ai sette dell’Aston Villa e del Manchester United. Con la trasformazione nel 1992 della Prima divisione in Premier League, imposta dai miliardi pagati dalla Sky Tv di Murdoch, le squadre che hanno vinto il titolo, con il Blackburn nel ruolo di intruso (un solo successo: 1994-95), sono appena tre: Manchester United (11), Arsenal (3) e Chelsea (3). Le stesse che continuano a occupare abitualmente tre dei quattro posti assegnati all’Inghilterra per la Champions League. Il campionato inglese, diventando una sorta di versione anglosassone della Liga (dove Barcellona e Real lottano per evitare l’onta del secondo posto), non ha guadagnato in competitività, perché questa c’era anche negli anni Settanta e Ottanta, quando Liverpool, Nottingham Forest, Aston Villa, Manchester City, Chelsea, Wolverhampton, Tottenham, Arsenal, Everton conquistavano Coppa Campioni, Coppa delle Coppe e Coppa Uefa. La Premier League è diventata uno dei campionati più prevedibili e scontati del vecchio continente. L’Italia continua a rifarsi a questo modello, copiandone il format ma mettendoci dentro meno soldi. Il risultato? Stesso spezzatino televisivo, meno qualità, stessa assenza di sorprese: in attesa del ritorno della Juventus, se non è Inter è Milan. ECL

©LECHAMPIONS.it. Tutti i diritti riservati/All rights reserved.