Un gol di tacco al San Paolo e via. Robinho ha scelto il modo migliore per festeggiare il ritorno al Santos e sottolineare il solco tecnico e tattico che ancora separa e distingue il calcio sudamericano da quello europeo.

L’asso della nazionale brasiliana ha giocato nel Real Madrid e nel Manchester City. Non proprio squadrette, eppure non ha brillato in nessuna delle due, se non a intermittenza. Liga e Premier league sono diverse tra loro e molto diverse dal campionato brasiliano ma Robinho ha talento a sufficienza per imporsi ovunque. Lo dimostrano le sue parite in nazionale contro i migliori difensori europei (vero Cannavaro?) e lo confermano alcune esibizioni ammirate al Bernabeu e al City of Manchester. Robinho non è un leader né ha le caratteristiche per esserlo ma, se messo in condizione, è uno dei pochi giocatori al mondo in grado di spostare gli equilibri di una squadra.
Non mettere un giocatore simile nelle condizioni di rendere al meglio è un peccato mortale per ogni allenatore, a maggior ragione se l’allenatore è Roberto Mancini, uno che ha dovuto aspettare il saggio Boskov per avere carta bianca in campo e così passare dal rango di promessa a quello di fuoriclasse. Dopo anni di Ulivieri e Bersellini, di panchine, di sostituzioni, di equilibri tattici da rispettare, il Mancini calciatore aveva avuto la fortuna di vedersi arrivare un allenatore di buon senso, che al Real Madrid aveva maturato grande esperienza nel gestire giocatori di classe.
Carlo Ancelotti in una recente intervista concessa al mensile britannico FourFourTwo, ha ammesso di aver sbagliato a Parma nella gestione di Zola: “Ero un giovane allenatore. Allora conoscevo un solo modo di sistemare la squadra e quindi non potevo trovare spazio per un trequartista, poi alla Juventus ho trovato Zidane e ho dovuto cambiare. E al Milan ho dimostrato che si possono far giocare tanti trequartisti contemporaneamente”. Roberto Mancini, stretto nel suo 4-4-2 che talvolta può diventare romboidale oppure 4-5-1, è ancora allo stadio di maturazione tattica dell’Ancelotti di Parma: mi serve che tu faccia questo. Dettare i movimenti e le giocate è il processo di normalizzazione e appiattimento tipico di tanti allenatori, che finiscono col mortificare classe e fantasia pretendendo cose normali da chi ha il dono di saper fare quelle speciali.
La conferma arriva proprio da Robinho: “In Brasile gli allenatori rispettano le caratteristiche del giocatore. Mancini, come quasi tutti gli allenatori europei, gioca con due linee di quattro giocatori ciascuna e agli attaccanti viene chiesto solo di correre, devi correre, punto”. Il 26enne campione brasiliano avrebbe usato parole diverse se in panchina avesse incontrato Pep Guardiola, Arsene Wenger, Alex Ferguson o Leonardo, anziché Fabio Capello, Bernd Schuster, Mark Hughes o, molto brevemente, Mancini. Il 4-4-2 non è solo lo schema più facile da insegnare ma anche quello che consente maggior controllo all’allenatore.
Il Mancini allenatore che sacrifica Robinho sull’altare di questo modulo, segue passo passo quanto fatto da Sacchi con Borghi e Van Basten, o da Capello con Savicevic (“Mi fa giocare ala destra perché è il posto più vicino alla panchina”) e Gullit (improponibile nel ruolo di battitore libero garantito nella breve e fortunata parentesi doriana). Per un allenatore non saper trovare la giusta collocazione a un giocatore più forte di un altro ma (apparentemente) meno funzionale è un limite non un pregio.
Il caso Cassano a Genova è la riprova più recente: schierato a sinistra nel ruolo di tornante, non assicura la copertura garantita da un qualunque centrocampista senza piedi ma con buoni polmoni. Delneri lo fa fuori e la Samp senza lui vince tre partite su tre. Il tecnico doriano può così sentirsi rafforzato nel suo convincimento che il buon Antonio sia un lusso che la squadra non può permettersi. Ragionamento tipico del buon allenatore: quello che conosce uno schema efficace e lo esporta ovunque. I fuoriclasse della panchina sono invece altra cosa. Guardiola con Iniesta e Messi, Zeman con Signori e Totti, Cruyff con Stoichkov, Laudrup e Romario, tutti convinti sostenitori del 4-3-3, hanno dimostrato che ci può essere massimo spazio per la fantasia e l’individualismo anche nel rigore tattico di uno sport che resta di squadra. Mancini avrebbe potuto imparare qualcosa dall’allenare Robinho, certamente più faticoso del mettere sulla fascia Bellamy. Ma il via libera al brasiliano è un’occasione mancata dall’ex numero 10 di Samp e Lazio per entrare nell’olimpo dei grandissimi. Al momento come allenatore vale poco più di un mediano. ECL

Il gol di Robinho in San Paolo-Santos
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