Il 15 dicembre 1995 una sentenza cambia lo sport in Europa: le squadra possono tesserare tutti i comunitari che vogliono ma non possono più pretendere indennizzi per giocatori a fine contratto. Ne beneficeranno tutti tranne uno.
«Non so se lo rifarei. Allora mi è sembrato giusto. Mi spiace che la sentenza non sia stata applicata come avrebbe dovuto». Lui ha scosso l’albero ma i frutti li hanno raccolti altri. Senza lasciargli nemmeno un torsolo di mela. Sono passati dieci anni, ma per lui è come se fossero trenta o quaranta. Oggi Jean-Marc Bosman è un pensionato senza pensione di 41 anni.
Il calcio d’inizio della sua partita più famosa è viene fischiato ben quindici anni fa. Nel 1990 il 26enne ex nazionale belga under 18 e under 21 è un discreto giocatore del Liegi col contratto in scadenza e l’avviso di cercarsi un ingaggio da un’altra parte. Trova un accordo per la stagione successiva con i francesi del Dunkerque, seconda divisione. Il passaggio salta per la richiesta di indennizzo della società belga, fuori dalla portata del club francese. L’atteggiamento del Liegi è quello che al tempo hanno tutte le società: da un lato non sono disposte a rinnovare un contratto a un giocatore di cui non hanno più necessità e dall’altro vogliono monetizzare la massimo la sua cessione. Una mostruosità giuridica. Perché, una volta scaduto il contratto, si consente a chi non è più proprietario (il club) di poter disporre a piacimento di un bene (il giocatore) che ormai non possiede più. E così Jean-Marc, e chiunque sia pagato per prendere a calci una palla, si trova nella condizione assurda di chi è costretto a non svolgere la propria professione perché il via libera per poterla esercitare dipende da un ex datore di lavoro, che però mantiene intatto il potere di non farti lavorare. Presso di sé e presso altri. Una assurdità. Ma una assurdità tollerata da tutto il mondo del calcio, cui evidentemente la cosa non sembra così strana.
Sino a quando il piccolo “Davide” Bosman decide che quel che gli altri accettano come ineluttabile per lui non lo è: una legge quando è iniqua va cambiata. E così porta il suo caso all’esame della Corte di giustizia europea, forte di ferme convinzioni, di tanto buon senso e dell’educazione ricevuta in una famiglia di operai, pronta al rispetto dei doveri come alla rivendicazione dei diritti.
La carriera di Bosman si interrompe qui: nel 1990 a 26 anni. Dovremmo dire chiude. Ci vorranno cinque anni prima che venga emessa la sentenza del giudice comunitario che gli dà ragione su tutta la linea, riconoscendogli anche un indennizzo di circa 400mila euro. Gliene avrebbero dovuti dare molti di più i suoi colleghi. Si guarderanno bene dal farlo. Né tantomeno gli sarà facile trovare una squadra dove riprendere a giocare.
La “sentenza Bosman” stravolge il sistema di “regole” che fino ad allora aveva governato la “tratta” degli sportivi. Nasce così il “parametro zero”. Una formula che racchiude il diritto del giocatore senza contratto di trovare una nuova squadra, senza che alla vecchia sia dovuto alcunché. Non solo. La sentenza va oltre la richieste degli avvocati di Bosman e equipara il mercato calcistico (e sportivo in genere) a qualunque mercato lavorativo comunitario, con la conseguenza che i “tetti” dei giocatori stranieri appartenenti alla Comunità europea non hanno più ragione di esistere: si è tutti europei?, e allora le distinzioni di nazionalità non possono valere, ogni squadra europea può schierare tutti i giocatori comunitari che vuole (Inter e Arsenal sono le più fedeli interpreti della sentenza, che l’attuale numero uno della Fifa Jospeh Blatter vuole limitare reintroducendo un limite di stranieri per squadra). Una rivoluzione. Anche se in realtà si è semplicemente adeguata la disciplina del mondo sportivo a quella vigente in tutti gli altri campi. Dimenticando però che lo sport ha una sua peculiarità e l’assenza di distinzioni di nazionalità tra i calciatori, dovrebbe coerentemente essere accompagnata da una nazionale europea e da un campionato europeo per club. Rivoluzione sì, ma adagio: non è ancora tempo di Stati Uniti d’Europa. Né di vera giustizia per Bosman. Perché l’uomo che ha liberato i colleghi dalle catene, dorate ma pur sempre strette, non ha ricevuto un grazie da nessuno o quasi. E se era preventivabile l’ingratitudine dell’Uefa o dei piccoli club, molto meno lo era quella di altre persone che, in teoria, avrebbero dovuto stargli vicino.
La moglie, che lo ha abbandonato portando via con sé la figlia. I calciatori, che hanno brillato per insensibilità e avidità. La partita organizzata in suo onore ha visto la partecipazione del minimo sindacale: 22 giocatori, 11 per squadra, nessuna riserva. I calciatori della nazionale olandese si sono tassati di 2500 euro ciascuno per aiutarlo. Una volta sola. Ma gli altri non hanno fatto nemmeno quello. Non hanno tempo. Sono lì sotto l’albero, dovesse cadere ancora qualcosa.

Gianni Serra

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