Il Chelsea di Mourinho non c’è più. I blues sono di nuovo la squadra di Abramovich (e Shevchenko).
Si era presentato ai cronisti inglesi e ai tifosi del Chelsea definendosi lo “special one”. Un tipo speciale Mourinho lo è davvero. Immodesto, furbo, preparato, opportunista ma anche coraggioso e onesto. Per questo i suoi giocatori lo adorano e giocano per lui. Addirittura vengono identificati con lui, come accaduto nelle ultime tre stagioni a John Terry, Frank Lampard e Didier Drogba. Anche i “mercenari” del Chelsea hanno dimostrato di avere un cuore quando si è trattato, sul finire scorsa stagione, di salvare la panchina dell’allenatore portoghese dai continui attacchi della dirigenza. Dopo due stagioni in cui bastava chiedere per ottenere dal giugno 2006 Mourinho ha assistito a un cambio di politica: caro Jose, gli acquisti li facciamo noi, tu pensa a farli giocare. Così dopo il mondiale di Germania sono arrivate le stelle Shevchenko e Ballack, con l’aggiunta di altri giocatori come l’olandese Khalid Boulahrouz, scelti personalmente dal presidente Roman Abramovich e dal direttore sportivo Frank Arnesen nonostante il parere negativo dell’allenatore. L’acquisto dell’ex attaccante del Milan ha rappresentato l’inizio della fine per Mourinho: “Shevchenko deve imparare a fare le cose che gli chiedo. Siamo una squadra io voglio che ognuno giochi per far giocare meglio la squadra, non per sé”. Parole che dovevano spiegare il perché di tante panchine e sostituzioni “a danno” dell’ucraino. Obiettivamente senza Sheva e col solo Drogba davanti il Chelsea rende di più: gli spazi per gli inserimenti dei centrocampisti aumentano e con loro l’imprevedibilità e le difficoltà per gli avversari. Argomenti non abbastanza forti da scalfire le convinzioni e l’amicizia che legano Abramovich a Shevchenko.
Il gelo tra il presidente russo e il manager portoghese nasce lì. E quando nel gennaio scorso Mourinho si trova senza difensori centrali, causa infortuni, il club risponde picche alle preghiere di acquistare almeno uno stopper. La speranza inconfessabile erano risultati negativi che fornissero un valido pretesto per liberarsi di Jose. Invece Mourinho sposta Ferreira dalla fascia destra al centro della difesa, arretra Essien dal cuore del centrocampo a quello della difesa e sopravvive sino alle semifinali di Champions, dove esce ai rigori col Liverpool, e riesce a conquistare Carling cup e Coppa d’Inghilterra. Successi che seguono due campionati vinti nelle prime due stagioni a Stamford Bridge. Prima di lui i blues non vincevano un titolo da cinquant’anni esatti. Anche nelle stagioni della rinascita, quelle dei Gullit, Vialli, Zola, non ci sono mai andati vicini.
Senza Abramovich non ci sarebbe stato Mourinho e nemmeno i Drogba, i Robben, i Makelele. Quei successi hanno la firma di tutti. Ma senza Mourinho i Terry e i Lampard avrebbero continuato ad essere i giocatori che erano con Claudio Ranieri: belli e perdenti. Il Chelsea sotto Mourinho non ha mai mostrato un bel gioco ma un gioco sì. Uno schema innovativo: 4-3-3 di chiara ispirazione difensiva. Non si era mai visto difendere con tre punte di ruolo, lui è riuscito a farlo per due stagioni – con l’arrivo di Shevchenko e Ballack lo scorso anno si è passati a lungo a un macchinoso e meno efficace 4-4-2 – tirando fuori da gente come Damien Duff, Joe Cole e Arijen Robben qualità difensive che nessuno dei tre sospettava di possedere. Squadra quadrata, solida e con una convinzione ferrea di riuscire a far proprio ogni risultato. Da subito. L’esordio sulla panchina del Chelsea per Mourinho è la gara d’apertura della stagione 2004-05: 1-0 sul Manchester United. Tre anni anni dopo, alla vigilia di una nuova sfida con lo United di Ferguson, dopo tre gare consecutive senza vittorie, le dimissioni-licenziamento con buonuscita da venti milioni di sterline. “Questa squadra mi resterà nel cuore”. E nel portafoglio. Con la squadra appannata, confusa, sull’orlo di una crisi di nervi, ha scelto il momento giusto per andarsene: prima del tracollo. Unico modo per continuare ad essere adorato dai tifosi, che già lo rimpiangono, e venir ricordato come il più grande allenatore della storia del club.
Il suo posto va all’ex ct israeliano Avram Grant. Un “politico” più che un allenatore. Uno che sa curare le pubbliche relazioni con la dirigenza e i giornalisti ma tatticamente è un allenatore mediocre. I risultati ottenuti alla guida della nazionale israeliana nel girone di qualificazione a Germania 2006 lasciano pochi dubbi: Israele è stata in grado di vincere solo con Cipro e le Far Oer. E’ chiaro che il “direttore del football” (la precedente carica ricoperta da Grant al Chelsea) ritornerà ad esser tale, dopo i primi risultati negativi (non tarderanno ad arrivare), lasciando il posto a un allenatore di chiara fama come Deschamps, Capello, Lippi, Ramos. O Hiddink, che riformerebbe con Arnesen l’accoppiata alla base dei più grandi successi del Psv Eindhoven. Più suggestiva ma più complicata la possibilità di vedere in panchina allenatori dell’ultima generazione come Marco Van Basten (attualmente ct dell’Olanda), Gianfranco Zola (vice di Casiraghi nell’under 21 italiana), Dennis Wise (manager del Leeds United) o Marcel Desailly (ex capitano dei blues).
Chiunque arrivi beneficerà di una disponibilità finanziaria illimitata, come accaduto a Mourinho nelle prime due stagioni, ma troverà molte difficoltà a ripetere risultati che hanno dell’incredibile. Il record più impressionante, e apprezzato dagli abbonati del Chelsea, è che i blues sotto Mourinho non hanno mai perso a Stamford bridge una partita di Premier league. Il record è ancora più sorprendente se si pensa che il tecnico portoghese non perde una partita casalinga dal 2002, sconfitto alla guida del Porto dal Beira Mar. Primati di questo tipo garantiscono a Mourinho di poter scegliere la prossima destinazione. Inter, Barcellona, Juventus (dove prenderebbe nuovamente il posto di Ranieri) sono, nell’ordine, le destinazioni più probabili. La nazionale portoghese verrà più avanti. ECL