Il Manchester City ha esonerato Roberto Mancini e ora attende le ultime due giornate di campionato per annunciare l’arrivo dalla prossima stagione di Manuel Pellegrini, attuale allenatore del Malaga.
FALLIMENTO. La motivazione? “Non ha raggiunto alcuno degli obbiettivi stagionali tranne la qualificazione alla prossima Champions League”. Secondo posto in campionato, finale di FA Cup persa allo scadere col Wigan sono le punte di una stagione che ha lasciato a bocca asciutta i campioni d’Inghilterra 2012. La vittoria in FA Cup avrebbe cambiato qualcosa per Mancini? No. L’accordo raggiunto con Pellegrini (ma smentito dal tecnico) era l’argomento che ha tenuto banco alla vigilia della sfida di Wembley col Wigan. Si può però dire che la sconfitta nella finale di FA Cup ha agevolato il compito del presidente Khaldoon al-Mubarak e del duo spagnolo Ferran Soriano e Txiki Begiristain, assunto sei mesi fa per ridisegnare organizzazione e filosofia del club. Assolutamente estranei al calcio inglese e chiamati a fare del City una sorta di Barcellona britannico, i due hanno dato un giudizio molto negativo della gestione Mancini: nessun legame tra settore giovanile e prima squadra; pessima gestione del rapporto con i giocatori; atteggiamento divisivo e ipercritico ai danni della società.
PELLEGRINI. L’uomo giusto per sanare questo “disastro” sarebbe il cileno Manuel Pellegrini. L’Ingegnere, è un ottimo tecnico, che si è costruito una gran reputazione nel campionato spagnolo e in Champions League dove ha fatto benissimo alla guida del Villareal e del Malaga (fra mille problemi economici). Resta la “macchia” del Real Madrid: nel 2009, nonostante una campagna acquisti faraonica da 200 milioni di euro, non riuscì a far meglio del Barcellona dell’esordiente Guardiola. Più che incapace Pellegrini si rivelò sfortunato, perché si ritrovò a battezzare (come avversario) la nascita del miglior Barcellona di sempre. Il City rappresenta per il tecnico cileno la seconda opportunità di guidare una “grande”.
MENTALITA’ VINCENTE. Il Manchester City però non è il Real Madrid o lo United, non è nemmeno il Bayern o il Barcellona. Ci sono i soldi ma non la mentalità, né la tradizione. Roberto Mancini lo sapeva e da subìto ha cercato di far capire il concetto: “La cosa più importante non è arrivare al successo, ma riuscire a vincere con continuità. Bisogna competere ogni anno per i trofei, solo così si crea e si stabilizza la mentalità vincente”. Messaggio chiaro, ripetuto ossessivamente con la speranza di far capire che per il successo duraturo non servono scorciatoie. Ma solo perseveranza e determinazione. Arrivato nel 2009 al posto di Mark Hughes, ha vinto la FA Cup nel 2011, il campionato nel 2012. Non poco per un club che non vinceva nulla dal 1968. Pochissimo invece per la proprietà e il duo Soriano-Begiristain: con la rosa messa a disposizione di Mancini questo è un bilancio fallimentare; in particolare le due eliminazioni consecutive dalla fase a gironi della Champions. In Europa il City poteva far meglio ma trasformare un club di perdenti cronici in un club di successo richiede almeno un paio di stagioni.
CHELSEA STYLE. Abramovich con Ranieri non ha vinto nulla, con Mourinho è arrivato al titolo ma per la Champions ha dovuto aspettare la fortuna di Roberto Di Matteo. Nel frattempo ha continuato a cambiare, facendo di Stamford Bridge un cantiere perennemente aperto e della filosofia del Chelsea un punto di riferimento negativo a livello mondiale.
FERGUSON. La stella polare di Mancini al City era Alex Ferguson. “Lo United è abituato a vincere noi no. Una squadra che non vince mai, dopo il primo grande risultato tende a sedersi, a rilassarsi un po’, a sentirsi appagata. Per questo in estate avevo chiesto l’acquisto di Robin Van Persie”. Che è finito allo United, doppia beffa. “Non solo ha rafforzato una diretta concorrente, ma ci ha privato di quell’elemento di novità che serve in questi casi. Quando tu porti un giocatore molto forte n una squadra già forte che ha appena vinto un titolo, la reazione di chi c’era prima è di fastidio: che bisogno c’era di lui?, e i vecchi si impegnano per dimostrare di valere sempre più dei nuovi. Se non aggiungi nessuno, ci si rilassa, per aver già dimostrato”. I veri vincenti sono quelli che non s’accontentano. E su questo punto il tecnico italiano non ha fatto sconti a nessuno sin dall’inizio. Cedendo i migliori giocatori ereditati da Mark Hughes (Ireland e Bellamy) perché insofferenti al nuovo regime, sino a dover lasciar andare via (a malincuore) Mario Balotelli nell’ultimo mercato di gennaio.
SGARBO FINALE. Se Jupp Heynckes è costretto a lasciare a Guardiola il Bayern dopo averlo reso (quasi) imbattibile, ci può stare che Mancini dia spazio a Pellegrini. Tutto assolutamente coerente con un calcio sempre più modellato su prepotenza, arroganza e bulimia di mecenati senza stile. Non far disputare le ultime due giornate a Mancini – un allenatore che un anno fa ti regalava la vittoria in un campionato dove aveva vinto 6-1 all’Old Trafford – per non concedergli l’occasione di salutare i suoi tifosi (che ne chiedevano la conferma: “Perché noi non siamo il Chelsea”), certifica una volta di più cosa separa (e continuerà a separare) i “poveri arricchiti” del City dal Manchester United: stile, senso di appartenenza e un dna del club che non coincide con quello del proprietario. ECL EUROPA
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