Il 21 maggio 2011 il 24enne Javi Poves Gomez debutta nella Liga con la maglia dello Sporting Gijon, subentrando nella ripresa a Barral nella sfida contro l’Hercules di David Trezeguet. L’esordio del calciatore-studente universitario è la nota più interessante di uno zero a zero altrimenti insignificante. Un match di cui nessuno si sarebbe ricordato ma che oggi torna in mente, perché quello spezzone di partita resterà l’unica presenza nel calcio professionistico di Javi Poves.
Pochi minuti ma più che sufficienti per spingerlo, appena due mesi più tardi, a dire basta. Totalmente disgustato. Non dalla pochezza tecnica esibita dalle due squadre, non esattamente il top del calcio spagnolo, ma da tutto il contorno che circonda, precede e segue le partite. “Il calcio professionistico è solo denaro e corruzione. Questo sport ormai coincide col capitalismo e il capitalismo è morte. Non voglio più far parte di un sistema che permette a poche persone di arricchirsi, grazie alla morte di altre persone che vivono in aree più sfortunate in Asia, Africa o Sud America. A che mi serve guadagnare 1000 euro anziché 800 se quello che ottengo è frutto della sofferenza di molta gente? La fortuna di questa parte del mondo esiste solo grazie alle disgrazie dell’altra”.
Nessun colpo di testa ma una riflessione coerente con le richieste presentate al suo club di riprendersi la vettura messa a disposizione (“Non posso accettare l’idea di avere due auto quando ci sono amici miei che non possono permettersene una”) e di non pagarlo su conto corrente (“Non voglio contribuire ad alimentare i business delle banche: vivono grazie a noi e speculano sui nostri soldi, per me dovrebbero andare tutte in fumo”). Se non fosse ancora abbastanza chiaro, Javi Poves, si sforza di mettere in luce quanto è perverso il connubio tra capitalismo e mondo del pallone: “Da quando iniziamo a dare i primi calci veniamo trattati come bestie: ci istigano alla competizione e quando si raggiunge una certa età è difficile tornare indietro. Finché la gente continua ad accettare il sistema così com’è, non sarà facile cambiare le cose. Io voglio vedere cosa succede nel mondo, andare nei Paesi più poveri per capire”.
Da anonimo panchinaro a capopolo: per molti Javi è già un mito. Ne è consapevole, come dimostra l’intervista rilasciata ad Abc: “Non mi piace essere un punto di riferimento. Non voglio che ‘Javi Poves’ diventi un’icona. Io combatto la disuguaglianza. Il mio desiderio è che tutte le persone siano uguali e vorrei che ci unissimo per tirare avanti insieme”. Chiaro che uno così non ha nulla a che spartire con un mondo che magnifica, senza porsi domande, la beneficenza patinata delle star più gettonate. “Io dico che Pelé, Ronaldinho e Messi sono ambasciatori dell’Unicef e questo per l’immagine può andare. Ma per incidere sulla vita reale di quelle persone che dicono di voler aiutare, devono fare altro. Devono muoversi in altro modo, essere coinvolti più profondamente. Ma quelli che mi sorprendono di più sono i giocatori che provengono dai Paesi del Terzo mondo. E ‘incredibile: la maggior parte arrivano da Paesi che soffrono, poi vengono qui, guadagnano quattro dollari e si credono dei re”. ECL EUROPA
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