Gli incidenti nello stadio di Port Said
Gli incidenti nello stadio di Port Said

No, non è stata una tragedia evitabile ma un massacro pianificato. Un’esecuzione voluta dai sostenitori del vecchio regime e permessa dal nuovo. Il calcio c’entra poco. Meglio: c’entra in parte, in virtù dal ruolo giocato nella rivoluzione egiziana dagli ultras, in prima linea nella guerriglia che opponeva e continua a opporre i civili alle forze armate.

Il sangue delle 74 persone ammazzate la sera dell’1 febbraio nello stadio di Port Said, al termine della sfida di campionato tra l’Al Masry e l’Al Ahly, è una macchia che si estende ben oltre il mondo del calcio africano. Tre giorni di lutto nazionale non basteranno a placare rabbia e proteste. Anzi, è più facile che questo massacro dia innesco a una nuova rivolta, ricalcando la sequenza che poco meno di un anno fa in Tunisia aveva seguìto la morte di Mohamed Bouazizi, il 26enne ambulante laureato, che si era dato fuoco dopo essersi rifiutato di sottostare alle angherie della polizia che, per ritorsione al rifiuto di pagare un pizzo, gli aveva sequestrato il carretto con la frutta. La storia qui sembra destinata a ripetersi.

Il governo egiziano ha cercato di dimostrare la sua estraneità all’accaduto, pretendendo le dimissioni del governatore di Port Said e l’arresto dei due ufficiali che avrebbero dovuto garantire la sicurezza dentro lo stadio. Capri espiatori di un’azione probabilmente avallata dall’alto, e andata oltre le intenzioni di una dura lezione agli oppositori. Anche Mubarak, nel suo penultimo appello alla nazione da presidente, aveva assicurato di voler “dare giustizia alle vittime degli scontri: chi ha ucciso non resterà impunito”, quasi a voler prendere le distanze dalla repressione portata avanti dai suoi fedelissimi. E sarebbero stati poi quegli stessi militari a prendere invece le distanze dal dittatore, deporlo, prenderne il posto, replicando strategie, bugie, scuse.

Mohamed Aboutrika (Al Ahly)
Mohamed Aboutrika nel 2008: solidarietà alla popolazione di Gaza

Le accuse rivolte ai militari dai tifosi dell’Al Ahly e dai familiari delle vittime sono nette: “Hanno lasciato che nello stadio entrassero persone armate di coltelli e armi da fuoco, poi si sono astenuti da ogni intervento”. Quello delle forze dell’ordine è un atteggiamento solo in apparenza incomprensibile. L’Al Ahly, è storicamente considerato il club dei nazionalisti, rappresentativo degli strati più poveri della società egiziana, al contrario dello Zamelek, in origine il club degli inglesi e del potere. Ma l’odio per Mubarak prima e la giunta militare che ne ha preso il posto, ha messo dalla stessa parte della barricata le due tifoserie rivali: unite nelle rivolte di piazza contro le forze armate. Dopo aver fatto cadere Mubarak la rivoluzione prosegue nei confronti dei militari al governo.

L’addio al calcio egiziano del tecnico portoghese dell’Al Ahly Manuel Jose e dei tre giocatori simbolo della squadra più titolata dell’Egitto e dell’intero continente africano Mohammed Barakat, Mohamed Aboutrika e Emad Motaeb è un annuncio che in un altro momento avrebbe occupato le prime pagine dei giornali, adesso è una nota di contorno. Aboutrika, laureato in filosofia all’università del Cairo e sempre fedele all’Al Ahly e al campionato egiziano nonostante le numerose offerte ricevute per giocare in Europa, è una delle stelle del calcio africano. Dai giovani egiziani è sempre stato considerato un punto di riferimento anche fuori dal campo, per non aver mai esitato a prendere posizioni nette in ambito politico. Le sue parole sono una condanna definitiva di ha scambiato i campi da clacio per terreni di battaglia: “Abbiamo visto la gente morire dentro a uno stadio senza che nessuno facesse nulla. Se questo è il valore che viene attribuito alla vita da queste persone non ha senso continuare a giocare a calcio”. ECL AFRICA

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