Cagliari 1970: uno scudetto che oggi come allora sembra un sogno. Perché la condizione del Cagliari non è cambiata: squadra simbolo di un’intera isola ma periferica e marginale rispetto alle grandi del campionato italiano. Condizione ideale per non vincere mai.
Come se gli isolani del Tenerife vincessero la Liga mettendosi alle spalle Real Madrid, Barcellona, Valencia e Siviglia o i gallesi dello Swansea la Premier League davanti a Manchester United, Chelsea, Arsenal e Liverpool. Fa sorridere solo l’idea.
Il 12 aprile 1970 il Cagliari è riuscito in quest’impresa impossibile. Sfiorata l’anno prima e quasi ripetuta due anni dopo nel campionato 1971-72, quando la squadra resta in corsa per il titolo sino all’ultima giornata, per poi perdere 2-1 a Mantova e finire al quarto posto, davanti all’Inter, ma dietro a Juventus, Milan e Torino. Lo scudetto vinto dal Cagliari 40 anni fa, resterà un successo isolato, ma non è stata gloria effimera né un colpo di fortuna.
Alle “provinciali” saper giocare a calcio non basta. Meglio: se giocano bene destano simpatia sinché non insidiano il primato di chi è (istituzionalmente) deputato a vincere. Attraversare quel guado che separa le grandi (protagoniste) dalle piccole (comparse) in qualunque campionato è un’impresa. Dopo iniziano i guai. Pressione e ostacoli tagliano le gambe a tutti. Resistono solo squadre con giocatori di classe, determinazione fuori dal comune, enorme fiducia nei propri mezzi e uniti da un forte spirito di gruppo. Combinazione rarissima. Ma indispensabile per avere la costanza, la determinazione, la convinzione necessarie per essere sempre più forti degli avversari e delle avversità (leggi: torti arbitrali) che le grandi squadre non conoscono o che sperimentano di rado ma che le piccole devono accettare come pedaggio dovuto.
Che il Cagliari, conquistata la serie A per la prima volta nella sua storia nel 1964-65, riuscisse a sfiorare il titolo nel 1969 e a conquistarlo l’anno dopo era inimmaginabile. Accontentarsi di una salvezza senza sofferenze (obiettivo stabile da 35 anni a questa parte: una sorta di condanna ad aeternum per i tifosi isolani) era la condizione più scontata per una squadra di quel rango, destinata a produrre buoni giocatori e vederli partire l’anno dopo.
Questo non è accaduto al Cagliari che Manlio Scopigno aveva ereditato nel 1966 da Arturo Silvestri (andato, lui sì, al Milan): i migliori (Martiradonna, Cera, Niccolai, Nenè, Greatti, Riva) erano rimasti e a loro nel giro di un triennio si erano aggiunti Albertosi e Brugnera (dalla Fiorentina in cambio di Rizzo), Gori, Poli e Domenighini (dall’Inter per Boninsegna), Tomasini, Zignoli. Il “Filosofo”, oltre a scelte tattiche innovative (tipo schierare il libero in linea con lo stopper, talvolta addirittura davanti), col suo approccio non convenzionale verso giocatori, avversari e establishment calcistico, ha avuto il grande merito di dare una mentalità vincente a un gruppo, una società, alla quale il copione assegnava il ruolo di comprimari.
Un connubio quello tra Scopigno, Riva e compagni, che il presidente Rocca aveva ucciso sul nascere decidendo di esonerare l’allenatore (che aveva chiuso il suo primo campionato sulla panchina rossoblu al sesto posto) per sostituirlo prima del torneo 1967-68 con Ettore Puricelli. Classico esempio di autolesionismo, “premiato” dall’11° posto finale. Con la fine della presidenza Rocca, nel 1968-69 c’è il ritorno in panchina di Scopigno: il Cagliari finisce secondo dietro la Fiorentina, e l’anno dopo arriva a quota 45, conquistando il titolo con due giornate di anticipo grazie al 2-0 sul Bari all’Amsicora il 12 aprile 1970. In tutto il torneo appena due sconfitte: entrambe per 1-0. Alla dodicesima giornata contro il Palermo, ultimo in classifica; e alla ventunesima contro l’Inter, quarta, grazie a un gol all’84’ dell’ex Boninsegna.
Riva vince la classifica marcatori con 21 gol, Albertosi fissa un primato ancora ineguagliato: 11 reti subite in 30 giornate. Miglior difesa e miglior attacco (42 gol), per una differenza reti stratosferica di +31. Una squadra equilibrata, molto, molto forte. Che manderà ai mondiali del Messico Niccolai, Cera, Greatti, Domenghini e due fuoriclasse. Albertosi in porta: titolare azzurro, con Dino Zoff in panchina, certamente uno dei cinque migliori portieri della storia del calcio italiano. Gigi Riva in attacco: in nazionale chiuderà con 35 gol in 42 partite, record che lo avvicina a Gerd Muller (69 in 62 partite) e Ferenc Puskas (80 in 81 presenze), perché quella è la dimensione del numero 11 di Leggiuno. Una stella del calcio mondiale. Ma la scelta di trascorre l’intera carriera nel Cagliari lo ha ridimensionato a livello internazionale alla stregua di un Matthew Le Tissier: corteggiato da Liverpool, Manchester United e Newcastle ma sempre fedele, sino al ritiro, al suo Southampton: per anni di lui si è detto “Per i Saints Le Tiss è la differenza tra la serie A e la C”. Nessuna esagerazione: dopo il suo ritiro sono arrivate, puntuali, le due retrocessioni. Stesso destino del Cagliari post-Riva.
Ma tra un talento come Le Tissier e un fuoriclasse assoluto come Riva ci sono differenze evidenti: il campione del Cagliari ha vinto trofei (campione d’Europa nel 1968, d’Italia nel 1970) e titoli individuali (il Pallone d’argento nel 1969), ha avuto riconoscimenti in nazionale e anche nelle coppe europee, dove ha dimostrato di avere lo stesso impatto avuto sul campionato italiano. Anche se i numeri sembrano dire il contrario, perché l’unica grande incompiuta della squadra guidata da “Rombo di tuono” rimane la Coppa Campioni. L’esordio il 16 settembre 1970 nel nuovo stadio di Sant’Elia, inaugurato pochi giorni prima con il 4-1 in Coppa Italia alla Massese. L’esperienza internazionale dei rossoblu era molto limitata. Tre partecipazioni in Mitropa Cup: nel 1966-67 eliminati negli ottavi dal Sarajevo (2-1 in casa e 1-3 in Jugoslavia); nel 1967-68 dopo aver superato il Banik Ostrava negli ottavi con un complessivo 8-3, eliminati nei quarti dal Valdar Scoplije con un doppio 1-0, risultato bissato pari pari nell’edizione successiva, dopo che negli ottavi i rossoblu avevano superato il Wiener Sk: 1-0 a Cagliari e 1-2 in Austria. Con gli austriaci ci scappa pure una mezza rissa: spintoni, qualche sberla. Presto dimenticata da tutti. Quasi tutti.
La prima in Coppa Campioni del Cagliari oppone i campioni d’Italia a quelli di Francia del St Etienne. Dopo 19 minuti i ragazzi di Scopigno sono sopra 2-0 grazie ai gol di Riva e Nenè; la terza segnatura arriva al 70′ ancora per merito di Riva. Qualificazione in pugno. Il ritorno in Francia però non è una formalità: i francesi giocano alla morte, mettono sotto assedio la porta di Albertosi ma alla fine “les verts” trovano solo un gol grazie al Pallone d’oro africano Salif Keita. Il Cagliari conquista così gli ottavi, assieme a squadre come Ajax, Borussia Moenchengladbach, Celtic, Everton, Stella Rossa, Panathinaikos. Già eliminati invece i campioni uscenti del Feyenoord, fatti fuori a sorpresa dai rumeni dell’Arad: 1-1 in Olanda e 0-0 in Romania. Le squadre presenti in tabellone aprono ai rossoblu addirittura sogni continentali: nessuna rivale può considerarsi superiore. Negli ottavi il sorteggio oppone i rossoblu ai campioni di Spagna dell’Atletico Madrid. Anche stavolta andata al Sant’Elia. Quella del 21 ottobre è una partita più complicata rispetto alla sfida col St Etienne, che Riva riesce a sbloccare solo cinque minuti prima della fine del primo tempo. Gori raddoppia al sesto della ripresa. Un uno-due micidiale che cambia l’inerzia della gara. Riva a venti minuti dalla fine commette un errore per lui inusuale fallendo il 3-0. Passano pochi istanti e un’indecisione di Tomasini su cross di Garate mette Luis in condizione di segnare il 2-1.
Dieci giorni dopo l’Italia è impegnata al Prater di Vienna contro l’Austria: un intervento assassino su Riva, spezza tibia e perone all’asso cagliaritano. L’autore è Norbert Hof, l’unico ad aver memoria delle sventole rimediate all’Amsicora. Vendicate. L’infortunio di Riva è un colpo durissimo per l’intero calcio azzurro ma soprattutto per il Cagliari, che sino a quel momento guidava il campionato e finirà invece al settimo posto. Scopigno è chiamato ad inventare una squadra nata con Riva, cresciuta per Riva, che all’improvviso si ritrova senza Riva. Il primo impegno, cinque giorni dopo l’infortunio, è il ritorno degli ottavi di Coppa Campioni al Vicente Calderon. Spaesati, privi del principale punto di riferimento, i rossoblu vengono messi sotto dall’inizio alla fine. Una tripletta di Luis, con l’aiuto di un rigore generoso, chiude la breve cavalcata europea dei campioni d’Italia. Gli spagnoli, superato il Legia Varsavia nei quarti, verranno poi eliminati in semifinale dall’Ajax di Cruyff e Neeskens, che nella finale di Wembley conquisteranno contro il Panathinaikos la prima di tre Coppe Campioni consecutive. Se c’era una squadra che poteva mettere in difficoltà i Lancieri di Amsterdam era proprio quel Cagliari, con Riva certo. Ma la sfida tra le due migliori squadre di quella stagione non si vedrà mai, perché quella resterà l’unica apparizione in Coppa Campioni del Cagliari. Un evento: allora inedito ora irripetibile.
L’identificazione di quel gruppo di giocatori con la Sardegna (e viceversa) è tale che piacerebbe poter dire che la vittoria dello scudetto del Cagliari è un’impresa paragonabile a quella del Celtic, che nel 1967 vinse la Coppa Campioni con dieci giocatori nati nel raggio di 20 chilometri da Glasgow. Non è così: nel Cagliari tricolore, al momento del trionfo, non c’erano cagliaritani né sardi. Lo sono diventati dopo: metà dei giocatori della rosa dello scudetto ha scelto di continuare a vivere a Cagliari. Ancora oggi capita di incontrare per strada Nené, Tomasini, Martiradonna o Gigi Riva. Monumenti viventi, miti, con atteggiamenti sobri e abitudini da persone comuni. Anche per questo apprezzati e ricordati con affetto pure da chi in campo li ha visti ben poco.
Gianni Serra
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Breve sintesi di Atletico Madrid-Cagliari – Coppa dei Campioni 1970-71
Breve sintesi di Olympiakos-Cagliari – Coppa Uefa 1972-73
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