Né infarto né aneurisma. I medici hanno fatto sapere che per la morte di Piermario Morosini i primi esami hanno escluso le due cause che sembravano le più probabili: “Non ci sono situazioni macroscopiche evidenti che ci permettano di determinare le cause della morte. Saranno necessari ulteriori controlli per sapere da cosa è stato determinato il decesso”. Eppure, senza alcun riferimento clinico, giornali e tv parlano quasi in coro di malformazioni genetiche. Come dire: il calcio non c’entra nulla. Bisogna riprendere lo spettacolo ed è meglio per tutti se lo si fa senza sensi di colpa. Proprio questa fretta di spostare il bersaglio, di ridurre a dramma personale l’epilogo tragico di un’esistenza – quella di Morosini – segnata da tragedie, definisce ruoli e strategie.
Soprattutto evidenzia perché, malformazione congenita o meno, il sistema calcio c’entra comunque. Perché non si può continuare a trattare ogni problema di salute dei calciatori, mortale o meno, con lo stesso approccio utilizzato da chi nega l’effetto dell’inquinamento atmosferico sul riscaldamento globale: “Non neghiamo i due fenomeni ma non è dimostrabile la correlazione”. E’ lo schema utilizzato per negare i legami tra Sla, infarti, tumori e l’attività calcistica e per fare terra bruciata attorno a voci-contro solitarie com’era quella del povero Carlo Petrini o com’è quella di Zdenek Zeman.
Dimostrare che le pratiche legate al calcio bastino da sole a spiegare i problemi di salute degli atleti è molto difficile, ma che siano, almeno, una concausa dovrebbe ormai essere pacifico. La sequenza è chiara: sponsor e tv pretendono più partite; nonostante le lamentele di facciata, federazioni, club e atleti sanno che da lì arrivano i soldi e non c’è nulla che possa spingerli a rinunciarvi: voi chiedete, noi vi diamo, voi ci date. Un circolo che nessuna delle tre parti ha interesse a spezzare. Al contrario ci si ingegna per moltiplicare eventi e denari. Per restare solo agli ultimi anni: la serie A è passata da 16 a 20 squadre; l’Uefa ha introdotto la fase a gironi nelle coppe europee per garantire più partite alle grandi squadre, e promette di portare la Champions League a 64 squadre entro il 2016; sette serate di calcio alla settimana per nove mesi l’anno non bastano e allora via alla copertura televisiva di amichevoli e allenamenti. Una follia diventata pane quotidiano. Non sorprende che un calendario agonistico basato sui palinsesti televisivi anziché su criteri meramente sportivi possa favorire tragedie. All’incremento degli impegni agonistici fa riscontro, per mancanza di tempo, un minor allenamento dei giocatori. Meno allenamento più partite uguale più infortuni e meno tempo per riprendersi. Questa costruzione folle, imposta dal calendario, fa entrare in gioco in misura sempre più massiccia e decisiva la medicina: aiuti farmacologici, alcuni leciti altri no, per innalzare la soglia della fatica, per abbreviare i tempi di recupero. Il doping nel calcio non è più una realtà, è una necessità.
Gianni Serra
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