Ian Rush, con la maglia bianconera

Ian Rush, con la maglia bianconera

Non sempre le autobiografie dei calciatori meritano una lettura. E quella di Ian Rush non farebbe eccezione, se non fosse per il capitolo dedicato all’esperienza juventina. In Italia quello delle autobiografie calcistiche è un fenomeno appena agli inizi e finora nemmeno dei più ispirati. Esemplare in questo senso la biografia di Carlo Ancelotti (“Io preferisco la coppa”), dove i pochi spunti inediti (Sacchi al Milan era partito col 4-3-3 con Ancelotti schierato sulla destra alle spalle di Gullit), vengono liquidati in fretta e annacquati in un racconto così leggero che finisce per banalizzare il protagonista del racconto. In Inghilterra quella delle biografie calcistiche è tradizione radicata e diffusa. In alcuni casi elevata ad arte.

Anche i giocatori di secondo piano trovano spazio sullo scaffale e spesso sono loro i racconti più interessanti e toccanti. Al contrario quelle dei big il più delle volte risultano troppo patinate e scritte col bilancino per giustificarne la lettura. Fanno eccezione, tra i campioni più recenti, quelle di Paul McGrath, Tony Adams e Paul Gascoigne. Accomunate da un’autenticità esemplare e da problemi personali confessati in modo così aperto e lucido da farti entrare in un’altra dimensione, molto più intima e sofferente rispetto a quella pubblica già nota.

 Non rientra in questo filone “Rush – The Autobiography” (2008). Il racconto del centravanti gallese del Liverpool procede senza particolari sussulti o sorprese sino a pagina 274 e anche quando parla dell’esplosivo rapporto con Graeme Souness, ex compagno diventato manager, lo fa in termini troppo misurati e controllati. Il capitolo dedicato alla parentesi juventina è il più interessante del libro. Probabilmente è l’idea che nessuno in Italia avrebbe mai letto mai quelle pagine a far sì che in quel capitolo la penna di Les Scott si limiti alla mera trascrizione.

Ian Rush - The AutobiographyVengono fuori l’invidia dei compagni, la profonda stima di Agnelli, l’amicizia con Michel Platini e Pasquale Bruno, l’amore per i tifosi.
Con la maglia della Juventus gioca una sola stagione, quella 1987-88 dominata dal testa a testa tra il Napoli di Maradona e il primo Milan di Sacchi. In quel torneo Rush e la Juve recitano da comparse: sesto posto finale, 7 gol in campionato e altri 7 nelle coppe per il gallese, tra cui una quaterna all’Ascoli e la trasformazione del rigore decisivo nello spareggio Uefa col Torino. Comunque poco per quello che era stato presentato come il miglior centravanti europeo. Etichetta che trovava d’accordo anche chi un anno più tardi non avrebbe esitato a dargli del bidone. Trattamento ingeneroso per un giocatore diventato juventino per scelta.

Barcellona 1987-88: Lineker e HughesNell’estate 1986 il Barcellona gli fa la corte. L’allenatore blaugrana è Terry Venables: l’inglese vuole rimpiazzare Steve Archibald con Ian Rush, per affiancarlo in attacco a Mark Hughes. I due non sono solo la coppia della nazionale gallese ma rispettivamente il miglior centravanti europeo del momento e quello che si candida a diventarlo. Il Barca offre al Liverpool 4.3 milioni di sterline; si inserisce la Juventus che però si ferma a 3.2. Nonostante l’ovvia preferenza del club inglese per la più remunerativa offerta catalana, il Liverpool lascia al suo centravanti la libertà di scegliere. La risposta è “Juventus”.
Decisione che costringe Venables a “ripiegare” sul centravanti dell’Everton e della nazionale inglese Gary Lineker (pagato 4.2 milioni di sterline). L’incontro di Rush con Boniperti riserva una sorpresa: “Platini gioca un’altra stagione, perciò il prossimo anno giocherai nella Lazio. Ma appena Michel si ritira vieni da noi”. “Alla Lazio? Con tutto il rispetto è come andare allo Sheffield United o al Sunderland. Se prestito dev’essere rimango un altro anno al Liverpool”. E così la stagione 1986-87 vede la Juventus con Platini e Laudrup, Rush ancora ad Anfield, il Barcellona con Hughes e Lineker.
Al termine del campionato 1986-87 Platini si ritira e Rush può finalmente arrivare a Torino. Alla presentazione del fiore all’occhiello della campagna acquisti bianconera lla stampa sportiva italiana si rivela per quello che è: “Cosa ne pensa di Margaret Thatcher come primo ministro?”, “Avrebbe combattuto nelle Falklands se l’avessero chiamata?”. I compagni di squadra riescono a far di peggio. “In precampionato a Lucerna segno il primo gol del 2-0 con cui vinciamo la partita inaugurale. Sono contento anche per i 10mila tifosi della Juventus che si sono fatti quattro ore di viaggio per venire a vederci in Svizzera. Al rientro negli spogliatoi però nessuno mi rivolge la parola. Io non ero in grado di parlare perché non sapevo l’italiano; però sapevo che alcuni miei compagni conoscevano l’inglese, ma il fatto che nessuno mi rivolgesse la parola mi faceva sentire fuori posto. Pensavo comunque che col tempo le cose sarebbero migliorate. In realtà, mentre rientravamo in Italia ho visto che nel pullman nessuno si era seduto vicino a me e tutti avevano i walkman. Insomma i giocatori della Juve non parlavano con me ma nemmeno tra loro”. Erano anni di transizione: della vecchia guardia erano rimasti Bodini, Cabrini, Brio, Scirea, Bonini e Vignola, le speranze erano riposte su De Agostini, Tricella, Bonetti, Favero, Mauro, Magrin, Alessio.

Rush capisce, e lo ammette, che arrivare in Italia senza conoscere la lingua è stato un grave errore. Sulle altre difficoltà viene illuminato da Michel Platini, col quale scambia quattro chiacchiere al termine di una seduta di allenamento che aveva visto la partecipazione straordinaria del francese, in visita a Torino per altri motivi. “I rapporti con la stampa? Se ti chiedono di letteratura, digli che leggi Shakespeare. Di musica? Ascolti Mozart o Verdi. Devi dirgli quel che vogliono sentir dire e dirlo in italiano. Loro credono a quel che leggono o sentono più di quel che vedono”. Rush confortato da Platini prova anche a convincerlo a tornare in campo. Senza successo: “No, assolutamente. Ian, tu sei arrivato nel posto giusto al momento sbagliato. Mi sono ritirato perché ho visto la squadra per quello che è: la Juventus è una collezione di individualità, tutte di talento, ma non è un collettivo. Ti faccio gli auguri, perché temo ne avrai bisogno”.

I compagni coi quali lega di più sono Stefano Tacconi, Pasquale Bruno e Sergio Brio (“che tiene fede al suo nome, persona davvero divertente”). Il rapporto più stretto è quello con Bruno (“avevo l’impressione che anche lui facesse fatica a stringere amicizia con gli altri compagni”). Dopo gli allenamenti e le partite Burno e Rush prendono l’abitudine di andare insieme in un caffé cittadino all’aperto, dove incontrano i tifosi bianconeri. E il ritratto della tifoseria juventina è entusiastico: “A me e Pasquale piaceva parlare coi fans, ascoltare i loro pareri, gli altri compagni mi pare nutrissero una sorta di diffidenza verso i tifosi comuni. Quelle chiacchierate erano i pochi momenti in cui mi sentivo felice. Quelle chiacchierate mi hanno aiutato a imparare un po’ di italiano, perché i tifosi mi correggevano, mi spiegavano il senso di certe frasi, ma sempre in modo caloroso e amichevole, in modo da non farmi mai sentire in imbarazzo. Sinceramente mi sentivo molto più rilassato nel prendere il caffé con loro di quanto sia mai stato nello spogliatoio”.
Se il rapporto con la squadra è pressoché inesistente, quello con l’allenatore Rino Marchesi è buono. “Una brava persona, ottimo allenatore. Ma su di lui c’erano già i fucili spianati”. Eccellente quello con l’Avvocato. Fin troppo: “Agnelli era sempre molto disponibile e pieno di attenzioni. Quando veniva a trovarci, a fine allenamento, dopo che gli erano andati via, mi dava consigli e incoraggiamenti, dicendo che capiva le mie difficoltà di inserimento. Parole di grosso aiuto e stimolo ma che temo creassero qualche risentimento nei miei compagni”. La disponibilità di Agnelli non era generica: l’Avvocato al termine della prima stagione chiede a Rush di indicargli chi vuole come compagno di reparto: “Fammi i nomi e io te li prendo”. “Mark Hughes, Peter Beardsley e John Barnes. Uno a scelta, andrà benissimo”. La settimana dopo la Juve avanza le offerte per Hughes e Beardsley ma la risposta è no su entrambi i fronti.Maggio 1989 Liverpool-Arsenal 0-2: il gol di Thomas

La novità è invece l’arrivo in panchina di Dino Zoff: “Un carattere forte, che sapeva cosa voleva dai suoi giocatori. Se c’era uno che avrebbe potuto far fuori le mele marce era lui”. Nel raduno in Svizzera Rush ritrova Laudrup e col danese ci sono anche i nuovi arrivi Rui Barros e Alexander Zavarov. I nuovi regolamenti hanno portato a tre il limite degli stranieri per squadra e l’arrivo del portoghese e del russo implica una cessione: la Juve trova l’accordo col Psv per la cessione di Laudrup, ma la prospettiva non piace a Michelino che fa saltare l’affare. Il 13 agosto arriva la chiamata di Paul Dean: “Saresti interessato a un ritorno al Liverpool?”. La settimana dopo Rush è nuovamente il numero 9 dei reds. “Una volta firmato col Liverpool, sono rientrato a Torino per aiutare Tracy a impacchettare tutto e salutare. Ho ringraziato Boniperti e Agnelli, fatto gli auguri a Zoff e salutato i compagni coi quali mi trovavo meglio. E poi ho fatto un salto al solito caffé per ringraziare e dire addio anche ai tifosi. Fantastici: gli dispiaceva ma mi fecero gli auguri. Un tifoso sulla sessantina mi dice: “Non penso che vedremo qui altri giocatori della Juve”. Temo avesse ragione. Per i giornali italiani la Juve sarebbe stata molto migliore senza di me. Ma l’affetto ricevuto dai tifosi al momento dell’addio compensava largamente le critiche. Se solo avessi sperimentato altrettanta amicizia nello spogliatoio”. La stagione 1988 vedrà la Juventus senza Rush finire il campionato al quarto posto, il Liverpool con Rush vincere la FA Cup e regalare all’ultima giornata il titolo all’Arsenal e un capitolo memorabile a Nick Hornby.

Gianni Serra
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